La Corte di appello di Milano con la sentenza qui pubblicata si è pronunciata sul rapporto tra diritti di opzione disciplinati in un patto parasociale e divieto di patto leonino, facendo applicazione dei principi di diritto sancito dalla Corte di Cassazione.
La questione controversa riguardava il se l’opzione PUT costituita in un accordo di investimento e patto parasociale contrastasse con il divieto di esentare un socio dai risultati della gestione (positivi o negativi).
Nel caso di specie, l’opzione di vendita era stata esercitata dopo lo scioglimento anticipato della Società per perdita del suo capitale sociale e poco prima della dichiarazione di fallimento della stessa. Inoltre contemplava un prezzo di retrocessione delle partecipazioni pari a 5 volte l’EBITDA con una soglia minima garantita, di importo in ogni caso superiore rispetto agli investimenti eseguiti dal socio titolare del diritto di opzione.
In particolare, lo sviluppo diacronico delle circostanze caratterizzanti il caso di specie è stato ricostruito nei termini seguenti:
- alla data dell’accordo tra soci la società non aveva ancora iniziato la sua attività;
- il titolare del diritto di opzione era entrato in società sottoscrivendo un aumento di capitale con sovrapprezzo;
- a distanza di qualche anno, perduto il capitale sociale, i soci avevano deliberato di non ricostituirlo e di sciogliere anticipatamente la società, con il voto favorevole del titolare del diritto di opzione;
- quest’ultimo, quindi, aveva esercitato l’opzione di vendita delle sue quote, domandando il pagamento del prezzo nella soglia minima garantita;
- dopo breve, la società fallì.
La Corte di Appello di Milano riprendendo il principio di diritto sancito dal Giudice di legittimità ha ricordato che il divieto di patto leonino di cui al 2265 c.c. è applicabile a tutti i tipi di società ed enuclea un principio di carattere generale che impone di verificare se il singolo accordo parasociale in cui è inserita l’opzione PUT lasci invariata la “causa societatis del rapporto partecipativo” o se, invece, la vada a deviare, esonerando nei fatti uno dei soci dalla sopportazione delle perdite (Cass. n. 10583/2018 nonché Cass. n. 17498/2018).
Messo in rilievo l’evolversi storico dei fatti rilevanti, la Corte di merito ha poi esaminato il complesso delle clausole caratterizzanti l’accordo di investimento e il patto parasociale, per valutarne la meritevolezza e la liceità della causa concreta. In questo senso, ha concluso che l’accordo, nella sua complessiva articolazione data da opzione di PUT e di CALL, sempre intese ad assicurare al relativo titolare il recupero integrale dell’investimento iniziale, realizzando anche una sicura plusvalenza senza concorrere ai rischi di impresa, era tale da garantire esclusivamente vantaggi senza sopportazione di perdite.
L’opzione PUT, infatti, esaminata nel contesto dell’accordo, intaccava “la purezza della causa societatis” attribuendo nei fatti ad un socio-investitore il potere di essere esentato dalle perdite e consentendogli di recuperare in ogni caso il proprio investimento retrocedendo la propria partecipazione agli altri soci a valori predeterminati ed insensibili ai rischi dell’attività di impresa.
Il giudice a quo aveva escluso la violazione del divieto di patto leonino per la sola carenza del carattere assoluto dell’esclusione dalle perdite o dagli utili, senza considerare che l’accordo, nel suo complesso, era idoneo a tenere il socio indenne in modo assoluto dalle perdite, in quanto gli consentiva di esercitare l’opzione nonostante la pregressa situazione di scioglimento, per perdite al di sotto del capitale sociale; situazione che di fatto comportò, pochi mesi dopo, il fallimento della società.
Invero, l’intero meccanismo dell’accordo, consentiva sempre e comunque all’investitore di lucrare eventuali guadagni senza sopportare il rischio delle perdite, attraverso plurime opzioni CALL e PUT esercitabili indipendentemente dall’andamento dell’impresa.
Si consideri che:
- l’accordo contemplava opzioni CALL, fonte del diritto per l’investitore di acquistare quote al solo valore nominale in funzione della sua esigenza di procedere ad “aggiustamenti” della misura della propria partecipazione al ricorrere di determinate condizioni;
- per l’eventualità di ricapitalizzazione erano scritte clausole anti diluizione, tali da proteggere il titolare del diritto di opzione dal rischio di diminuire la misura della propria partecipazione;
- l’opzione PUT poteva essere esercitata anche nel caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale.
La Corte di Appello di Milano ha dunque ravvisato che il caso concreto fosse caratterizzato da una completa e irriducibile scissione tra poteri sociali e partecipazione al rischio di impresa, in quanto il socio-finanziatore dell’impresa avrebbe sempre e comunque potuto recuperare l’investimento, ottenendo finanche una plusvalenza.
In conclusione, eseguita l’analisi sostanziale della situazione concreta (come chiarito da Cass. 8927/1994), la Corte di Appello di Milano ha rilevato che nel caso sottoposto alla sua decisione il complessivo sistema di clausole dell’accordo di investimento e patto parasociale deviava dalla causa societatis con conseguente elusione del divieto di patto leonino.