Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sul mutuo bancario a tasso fisso con rimborso rateale con ammortamento alla francese
Con la sentenza n. 15130/2024 in data 29/05/2024 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate in tema di mutuo bancario a tasso fisso con rimborso rateale con ammortamento alla francese e, in particolare, sulle conseguenze giuridiche dell’ omessa indicazione, nel contratto, del regime di ammortamento alla francese e della capitalizzazione composta degli interessi a debito. La sentenza trae origine da una controversia sorta su domanda di una mutuataria che sosteneva la nullità parziale di un contratto di mutuo ipotecario a tasso fisso, a causa della mancata pattuizione e indicazione delle modalità di ammortamento e delle modalità di calcolo degli interessi passivi. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno preliminarmente osservato che la mancata indicazione nel contratto del maggior costo del prestito come effetto del sistema “composto” di capitalizzazione degli interessi non pone un problema di determinatezza o indeterminatezza dell’oggetto del contratto ma, in ipotesi, di eventuale mancanza di un elemento tipizzante del contratto stesso, prescritto dall’art. 117, comma 4, T.u.b., che darebbe luogo, semmai, a nullità testuale per la mancata indicazione di un «prezzo» o costo aggiuntivo del prestito e all’applicazione del tasso sostitutivo. L’indagine sulla determinatezza o indeterminatezza dell’oggetto contrattuale, invero, non va compiuta con riferimento alla convenienza del regime finanziario del prestito del mutuatario rispetto ad altri possibili piani di ammortamento. Le Sezioni Unite hanno poi illustrato come nel piano di ammortamento “alla francese” il maggiore carico di interessi del prestito non dipende dall’anatocismo (calcolo di interessi su interessi), ma dal fatto chela restituzione del capitale è posticipata per assicurare la rata costante in equilibrio finanziario, il che comporta l’onere di più interessi corrispettivi a carico del mutuatario ed a beneficio del mutuante. In mancanza di un fenomeno di produzione di interessi su interessi, la tipologia di tale ammortamento non incide sul tasso annuo nominale (TAN) né sul tasso annuo effettivo globale (TAEG), che devono essere indicati nel contratto. Quanto alle prescrizioni normative in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra le banche e i clienti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno osservato che esse sono volte a contemperare gli obblighi di condotta degli istituti di credito con l’esigenza di lasciare al cliente la libertà di scegliere l’istituto che gli offre un piano di rimborso più confacente alle proprie esigenze e condizioni, ma non si spingono fino ad esigere che gli istituti si sostituiscano al cliente nella valutazione della adeguatezza e convenienza dell’operazione. Ragion per cui, eventuali dubbi sulla comprensione del meccanismo di funzionamento del piano allegato al contratto e dei suoi effetti potrebbero essere espressi al momento della stipulazione del contratto che è la sede in cui il cliente potrebbe esigere dall’istituto bancario ogni eventuale chiarimento al riguardo. Alla luce di tali considerazioni, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno pronunciato il seguente principio di diritto: in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento «alla francese» di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione «composto» degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti. Dott.ssa Margherita Tenneriello cass. civ. 15130-2024 del 29.05.2024 Scarica il testo integrale in PDF
LA CORTE DI CASSAZIONE SUL FALLIMENTO DELLE START-UP INNOVATIVE
Con l’ordinanza n. 1587/2024 del 16/01/2024 la Corte di Cassazione si è pronunciata in ordine al fallimento di una start-up innovativa che perde i requisiti, previsti dall’art. 25, commi 2 e 5, del Decreto Legge n. 179 del 2012, per essere iscritta nella sezione speciale del Registro delle imprese. L’ordinanza trae origine dal reclamo ex. art. 18 L. Fall. proposto da una start-up innovativa iscritta nell’apposita sezione del registro delle imprese, contro la sentenza che ne aveva dichiarato il fallimento. Avverso la pronuncia della Corte d’Appello, che aveva rigettato il reclamo, la società ha proposto ricorso in Cassazione deducendo che al termine quinquennale dell’iscrizione alla sezione speciale del Registro delle imprese, a cui consegue il beneficio di non fallibilità ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, andassero aggiunti i sessanta giorni previsti per l’effettiva cancellazione della start-up dall’apposita sezione del registro, contrariamente da quanto sostenuto dalla corte territoriale. L’art. 31, comma 4, del D.L. n. 179 del 2012 dispone al riguardo che fatto salvo il diverso termine previsto dal comma 3 dell’articolo 25, se applicabile, qualora la start-up innovativa perda uno dei requisiti previsti dall'articolo 25, comma 2, prima della scadenza dei cinque anni dalla data di costituzione e in ogni caso al raggiungimento di tale termine, cessa l’applicazione della disciplina prevista nella presente sezione, incluse le disposizioni di cui all’articolo 28. La Corte di legittimità ha chiarito che l’iscrizione di una società quale start-up innovativa alla sezione speciale del Registro delle imprese non preclude la verifica da parte del giudice dell’effettivo possesso dei requisiti per l’iscrizione in tale sezione speciale (Cass. civ. 04/07/2022, n. 21152); e che il termine quinquennale di non assoggettabilità di tali società a procedure concorsuali non decorre dalla data di deposito della domanda e dall’autocertificazione del legale rappresentante sul possesso dei requisiti formali e sostanziali, ma, per l’appunto, decorre dalla data dell’effettiva costituzione della start-up (Cass. civ. 02/08/2022, n. 23980). Su tali basi ha pronunciato il seguente principio di diritto: La cessazione della disciplina di favore della esenzione della start up innovativa dalle procedure concorsuali diverse da quelle previste dal capo II della legge 27 gennaio 2012 n. 3 (“Procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio”), ai sensi dell’art. 31, comma 4, del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modifiche dalla l. n. 221 del 2012, si verifica al momento del decorso dei termini stabiliti nell’art. 25, commi 2 e 3, del predetto d.l., senza che rilevi il termine stabilito per i relativi adempimenti amministrativi dal successivo comma 16, e prescinde dall’effettiva cancellazione della società dalla relativa sezione speciale del registro delle imprese. Margherita Tenneriello Scarica il testo integrale in PDF Cass. civ., 16 gennaio 2024, n. 1587
LA CORTE DI CASSAZIONE NEGA LA FALLIBILITÀ DELLE COOPERATIVE SOCIALI
Con la Sentenza n. 32992/2023 pubblicata in data 28/11/2023 la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione si è pronunciata sull’assoggettabilità al fallimento delle cooperative sociali. La sentenza in esame trae origine dalla pronuncia del Tribunale di Lecce del 9 ottobre 2018 che ha dichiarato il fallimento di una società cooperativa, ritenendo irrilevante, a tal fine, la natura di cooperativa a mutualità prevalente della società, in quanto esercente attività commerciale nel rispetto del criterio di economicità, come emergeva dai bilanci di esercizio. La società debitrice ha proposto reclamo dinnanzi alla Corte d’Appello, la quale ha rigettato il reclamo ed ha confermato la declaratoria fallimentare ritenendo che non fosse ostativa la disposizione dell’ art. 14 del D.lgs. 112 del 2017 circa la sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa di una società cooperativa a mutualità prevalente stante l'applicabilità della disciplina generale delle cooperative quale in particolare l'art. 2545-terdecies del Codice civile, che prevede l'assoggettamento delle cooperative sia alla liquidazione coatta amministrativa che al fallimento. Ne è quindi scaturito il ricorso per cassazione all’origine della pronuncia qui commentata. La Corte, nell’esaminare la questione, ha preliminarmente proceduto all’inquadramento della normativa di riferimento. L’art. 2520 del Codice civile detta un principio generale per cui le cooperative regolate da leggi speciali sono soggette alle disposizioni del Titolo VI del Libro V del Codice civile, in quanto compatibili. Tale principio trova applicazione, in particolare, per le cooperative sociali, aventi la loro disciplina nella Legge 8 novembre 1991, n. 38, la quale, all’art. 1, comma 2, stabilisce che ad esse si applicano le norme relative al settore in cui operano, nella misura in cui sono compatibili con la legge stessa. Di conseguenza, le società cooperative sono soggette, in prima istanza, alla disciplina specifica prevista per loro e solo nella misura in cui sia compatibile, a quella generale stabilita dall'art. 2511 del Codice civile. Pertanto, la questione principale posta al vaglio della Corte è determinare se, ai fini dell'individuazione della procedura in caso di insolvenza della cooperativa sociale, debba essere applicata la disciplina generale prevista dall'art. 2545-terdecies del Codice civile per le società cooperative, oppure se esistono norme specifiche di settore per le cooperative sociali. Tale questione era stata già affrontata dai giudici di legittimità, i quali l’avevano risolta enunciando il principio di diritto secondo cui: “è assoggettabile a fallimento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2545-terdecies e 2082 del Codice civile e dell' art. 1 della Legge fall., una società cooperativa sociale che svolga attività commerciale secondo criteri di economicità (c.d. lucro oggettivo), senza che rilevi l'eventuale assunzione della qualifica di Onlus ai sensi dell'art. 10 del D.lgs. n. 460 del 1997, trattandosi di norma speciale di carattere fiscale, che non integra la "diversa previsione di legge" contemplata dal secondo comma dell' art. 2545-terdecies» (Cass. civ., 20 ottobre 2021, n. 29245). Nella sentenza in commento, però, la Corte di legittimità si è discostata dal suddetto principio di diritto sostenendo l’assoggettabilità delle cooperative sociali esclusivamente a liquidazione coatta amministrativa e non al fallimento. Nel sostenere tanto, la Corte ha spiegato che il regime giuridico delle cooperative sociali ha subito rilevanti modificazioni dall’introduzione del D.lgs. n. 112 del 2017, con cui si è provveduto alla revisione della disciplina dell’impresa sociale. L’art. 1 di tale decreto stabilisce che “le cooperative sociali e i loro consorzi, di cui alla Legge 8 novembre 1991, n. 381, acquisiscono di diritto la qualifica di imprese sociali. Alle cooperative sociali e ai loro consorzi, le disposizioni del presente decreto si applicano nel rispetto della normativa specifica delle cooperative ed in quanto compatibili, fermo restando l'ambito di attività di cui all'art.1 della citata Legge n. 381 del 1991, come modificato ai sensi dell'articolo 17, comma 1”. La suddetta disposizione non deve essere letta isolatamente ma in modo sistemico e in relazione alla finalità della normativa di riferimento. La qualifica automatica delle cooperative sociali come imprese sociali, secondo l’interpretazione della Corte, mira a salvaguardare tali soggetti da un’applicazione incondizionata dalla relativa disciplina, ed in particolare delle norme promozionali ed agevolative dalla stessa previste, ammettendone l’operatività esclusivamente se le stesse risultino maggiormente favorevoli di quelle relative al tipo societario. Tra le disposizioni più favorevoli va annoverata anche l'articolo 14, comma 1, del D.lgs. n. 112 del 2017, il quale stabilisce che in caso di insolvenza, le imprese sociali sono soggette alla liquidazione coatta amministrativa, la cui applicabilità esclude la sottoposizione dell’impresa al fallimento, conformemente a quanto disposto dall'art. 2, comma 2, della Legge Fallimentare, nonché dall’art. 295, comma 1, del D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice dell’impresa e dell’insolvenza). Inoltre, la Corte ha evidenziato che sono le finalità di interesse pubblico perseguite dalle imprese sociali che ne giustificano l'assoggettamento esclusivo alla liquidazione coatta amministrativa. Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha pronunciato il seguente principio di diritto: “a seguito dell'entrata in vigore del D.lgs. n. 112 del 2017, che all'art. 1, comma 4, qualifica come imprese sociali di diritto le cooperative sociali di cui alla L. n. 381 del 1991, tali società sono assoggettabili, in caso d'insolvenza, esclusivamente a liquidazione coatta amministrativa, ai sensi del D. lgs. n. 112 cit., art. 14, comma 1, restando pertanto esclusa la sottoposizione delle stesse al fallimento, prevista in via alternativa dall'art. 2545-terdecies c.c., comma 1".” Margherita Tenneriello Scarica il testo integrale in PDF Sentenza della Corte di Cassazione del 28 11 2023 n. 32992
LA CORTE DI CASSAZIONE SI È PRONUNCIATA SULL’AMMISSIBILITÀ DEL CUMULO DELLA DOMANDA DI SEPARAZIONE CONSENSUALE CON LA DOMANDA DI DIVORZIO
Con la Sentenza n. 28727/2023 pubblicata in data 16/10/2023 la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione si è pronunciata sull’ammissibilità di una domanda presentata da due coniugi con un ricorso congiunto davanti al Tribunale di Treviso per chiedere di pronunciare la loro separazione personale e, decorso il periodo di tempo previsto dall’art. 3 della Legge n. 898/1970 e previo passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione personale, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio alle stesse condizioni richieste per la separazione, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473 bis.51 c.p.c. La sentenza in esame trae origine dal rinvio pregiudiziale con cui il Tribunale di Treviso ha sottoposto alla Suprema Corte la questione sull’ammissibilità del cumulo delle domande di separazione consensuale e il divorzio su domanda congiunta che, così, ha avuto modo di pronunciarsi su due importanti novità introdotte dalla c.d. Riforma Cartabia di cui al D.lgs. n. 149/2022. La prima novità è rappresentata dal c.d. rinvio pregiudiziale del giudice di merito, che, ai sensi del nuovo art. 363 bis c.p.c., consente al giudice di merito di sottoporre d’ufficio alla Corte di Cassazione una questione di diritto fondamentale per la decisione, con la conseguenza che il principio di diritto eventualmente pronunciato dalla Corte di legittimità sarà vincolante sia nel procedimento in cui si è verificata la rimessione alla Corte, sia, se questo si estingue, nell’eventuale nuovo processo che le parti potrebbero instaurare sulla medesima questione. La seconda novità è disposta dal nuovo art. 473 bis.49 c.p.c. che disciplina il cumulo della domanda di separazione con la domanda di scioglimento degli effetti civili del matrimonio, ma la possibilità di cumulare entrambe le domande in un unico ricorso non è stata prevista anche dal nuovo art. 473 bis.51 c.p.c. che disciplina la presentazione congiunta del ricorso da parte dei coniugi. Pertanto, la questione di diritto sottoposta alla Corte di Cassazione dal Tribunale di Treviso riguarda la liceità del cumulo della domanda di separazione con la domanda di scioglimento degli effetti civili del matrimonio in un ricorso congiunto presentato da due coniugi. A tal riguardo la Corte di legittimità ha chiarito che la ratio della novità legislativa introdotta con l’art. 473 bis.49 c.p.c. che ammette il cumulo delle domande nei procedimenti instaurati con ricorso di una sola parte, deve individuarsi nel risparmio di “energie processuali” realizzato con il simultaneus processus su entrambe le domande. Nel sostenere tanto, la Corte ha spiegato che potendo le parti trovare in un'unica sede un accordo complessivo sia sulle condizioni di separazione che sulle condizioni di divorzio, concentrando in un unico ricorso l'esito della negoziazione delle modalità di gestione complessiva di tale crisi, disciplinando una volta per tutte i rapporti economici e patrimoniali tra loro e i rapporti tra ciascuno di essi e i rapporti tra ciascuno di essi e i figli minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti, realizza indubbiamente un «risparmio di energie processuali» che può indurre le stesse a far ricorso al predetto cumulo di domande congiunte. Da un punto di vista sistematico, osserva la Corte, non si rinvengono ostacoli all’ammissibilità del cumulo delle domande nell’ipotesi di ricorso congiunto, infatti la trattazione della domanda congiunta di scioglimento degli effetti civili del matrimonio sarà condizionata sia dall’omologazione della separazione consensuale con sentenza passata in giudicato, sia dal decorso del termine minimo di separazione previsto dalla Legge n. 898/1970. A maggior ragione il cumulo delle domande deve ritenersi possibile se si considera che lo stesso Codice di Procedura Civile prevede, agli articoli 10, comma 2 e 104, comma 1, il cumulo oggettivo di domande contro la stessa persona, sicché, anche se nelle domande di divorzio congiunto non esiste un attore e un convenuto, non sembrano esservi ostacoli alla loro proponibilità in cumulo. La Corte di legittimità ha inoltre precisato che presentando congiuntamente con un unico ricorso le domande di separazione consensuale e di divorzio su domanda congiunta i) non si verifica alcun atto dispositivo in quanto i coniugi propongono le proprie domande al Tribunale chiedendo l’accoglimento delle relative conclusioni e ii) l'accordo tra i coniugi ha natura negoziale solo per quanto concerne i figli e i rapporti economici, mentre con riferimento allo scioglimento del vincolo coniugale ha natura meramente ricognitiva, con la conseguenza che il cumulo delle domande non incide sul carattere indisponibile dei c.d. patti futuri perché si tratta di un accordo unitario che è sottoposto al vaglio del Tribunale. Quindi, alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha pronunciato il seguente principio di diritto: “In tema di crisi familiare, nell'ambito del procedimento di cui all'art.473 bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio”. Margherita Tenneriello Scarica il testo integrale in PDF cass-civ-sez-i-sent-data-ud-06-10-2023-16-10-2023-
LA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA SI PRONUNCIA SUGLI ACCORDI TRA IMPRESE CHE FALSANO LA CONCORRENZA
Con la sentenza del 29 giugno 2023 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata sulla domanda del Tribunal da Relação de Lisboa (Corte d’appello di Lisbona, Portogallo) di interpretazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE nonché dell’articolo 4, lettera a), del regolamento (UE) n. 330/2010 della Commissione, del 20 aprile 2010, relativo all’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE a categorie di accordi verticali e pratiche concordate e degli orientamenti sulle restrizioni verticali. La domanda pregiudiziale è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Super Bock Bebidas SA, una società con sede in Portogallo, e l’Autoridade da Concorrência (autorità della concorrenza portoghese). Quest’ultima aveva contestato alla società portoghese di aver stipulato accordi di distribuzione esclusiva con distributori indipendenti che violavano le regole di concorrenza e a tale titolo infliggeva loro ammende. La Super Bock Bebidas SA ha prima adito il Tribunal da Concorrência, Regulação e Supervisã (Tribunale della concorrenza, regolamentazione e vigilanza), il quale ha confermato la decisione dell’ Autoridade da Concorrência, poi ha interposto appello innanzi al Tribunal da Relação de Lisboa (Corte d’appello di Lisbona), il quale ha proposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia per ottenere chiarimenti sull’interpretazione dell’articolo 101 TFUE. In primo luogo il giudice di rinvio ha chiesto se l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE debba essere interpretato nel senso che la contestazione che un accordo verticale di fissazione di prezzi minimi di rivendita costituisce una “restrizione della concorrenza per oggetto” può essere effettuata senza esaminare in via preliminare se tale accordo rilevi un grado sufficiente di dannosità per la concorrenza o se si possa presumere che tale accordo presenti, di per sé, un siffatto grado di dannosità. La Corte nell’esaminare la questione, ha preliminarmente proceduto all’inquadramento della normativa di riferimento. L’art. 101, paragrafo 1, TFUE, vieta, perché incompatibili con il mercato interno, tutti gli accordi tra imprese che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano “per oggetto o per effetto” di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno. Richiamando dei precedenti giurisprudenziali, la Corte ha spiegato che nell’esaminare se l’accordo è anticoncorrenziale e ricade nel divieto sancito dall’art. 101 TFUE è necessario innanzitutto considerare l’oggetto dell’accordo, nel caso in cui venga dimostrato che l’oggetto è anticoncorrenziale, non è necessario indagare i suoi effetti sulla concorrenza (CGUE 20/01/2016 C-373/14). A tal riguardo, la nozione di “restrizione della concorrenza per oggetto” deve essere interpretata restrittivamente, potendo essere applicata solo ad alcuni tipi di accordi che presentano un grado di dannosità per la concorrenza sufficiente perché si possa ritenere che l’esame dei loro effetti non sia necessario (CGUE 26/11/2015 C-345/14). Per valutare se il grado di dannosità per la concorrenza sia sufficiente occorre far riferimento al tenore delle disposizioni dell’accordo, agli obbiettivi che esso mira a raggiungere e all’insieme degli elementi che caratterizzano il contesto economico e giuridico nel quale l’accordo si colloca. La seconda questione esaminata dai giudici di Lussemburgo concerne la nozione di “accordo” ai sensi dell’art. 101 TFUE. Conformandosi alla costante giurisprudenza, la Corte ha chiarito che affinché sussista un «accordo», ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, è sufficiente che le imprese di cui trattasi abbiano espresso la loro volontà comune di comportarsi sul mercato in un determinato modo. La comune volontà delle parti può risultare sia dalle clausole del contratto di distribuzione, sia dal comportamento delle parti, in particolare, dall’eventuale esistenza di un assenso, esplicito o tacito, da parte dei distributori ad un invito a rispettare prezzi minimi di rivendita. Inoltre, la Corte ha chiarito che sotto il profilo probatorio, l’esistenza dell’accordo tra fornitore e distributore può essere dimostrata non solo mediante prove dirette, ma anche tramite indizi oggettivi e concordanti. L’ultima questione posta al vaglio della Corte è se il requisito del pregiudizio tra Stati membri previsto dall’ art. 101 TFUE possa risultare integrato anche se l’accordo verticale di fissazione di prezzi minimi di rivendita si estenda alla quasi totalità e non alla totalità dello stato membro. Richiamando le sue precedenti pronunce, la Corte ha chiarito che anche un’intesa che copre solo una parte del territorio di uno Stato membro può, in determinate circostanze, essere in grado di pregiudicare il commercio transfrontaliero (CGUE 3/12/1987). È compito del giudice valutare se l’accordo sia in grado di pregiudicare sensibilmente il commercio tra Stati membri e tale valutazione deve essere effettuata alla luce del contesto economico e giuridico in cui viene concluso l’accordo. Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Giustizia ha pronunciato i seguente principii di diritto: 1) L’articolo 101, paragrafo 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che: la constatazione che un accordo verticale di fissazione di prezzi minimi di rivendita comporta una restrizione della concorrenza «per oggetto» può essere effettuata solo dopo aver stabilito che tale accordo rivela un grado sufficiente di dannosità per la concorrenza, tenuto conto del tenore delle sue disposizioni, degli obiettivi che esso mira a raggiungere nonché dell’insieme degli elementi che caratterizzano il contesto economico e giuridico nel quale esso si inserisce. 2) L’articolo 101, paragrafo 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che: sussiste un «accordo», ai sensi di tale articolo, quando un fornitore impone ai suoi distributori prezzi minimi di rivendita dei prodotti da esso commercializzati, nei limiti in cui l’imposizione di tali prezzi da parte del fornitore e il loro rispetto da parte dei distributori siano l’espressione della comune volontà di tali parti. Tale comune volontà può risultare sia dalle clausole del contratto di distribuzione di cui trattasi, qualora esso contenga un invito esplicito a rispettare prezzi minimi di rivendita o autorizzi, quanto meno, il fornitore ad imporre siffatti prezzi, sia dal comportamento delle parti e, in particolare, dall’eventuale esistenza di un assenso, esplicito o tacito, da parte dei distributori ad un invito a rispettare prezzi minimi di rivendita. 3) L’articolo 101 TFUE, in combinato disposto con il principio di effettività, deve essere interpretato nel senso che: l’esistenza di un «accordo», ai sensi di tale articolo, tra un fornitore e i suoi distributori può essere dimostrata non solo mediante prove dirette, ma anche mediante indizi, oggettivi e concordanti, da cui si può dedurre l’esistenza di un siffatto accordo. 4) L’articolo 101, paragrafo 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che: la circostanza che un accordo verticale di fissazione di prezzi minimi di rivendita si estenda alla quasi totalità, ma non alla totalità, del territorio di uno Stato membro non impedisce che tale accordo possa pregiudicare il commercio tra Stati membri. Margherita Tenneriello Sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 29 giugno 2023 C-211-22 scarica il testo integrale in PDF
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si pronuncia sull’indennità dell’agente commerciale dopo l’estinzione del contratto
Con la sentenza del 23 marzo 2023 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata sulla domanda del Nejvyšší soud (Corte suprema della Repubblica ceca) di interpretazione dell’articolo 17 paragrafo 2 lettera a), della direttiva 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti. La sentenza della Corte trae origine dalla domanda proposta da un agente per ottenere la condanna del preponente al pagamento l’indennità di cessazione rapporto dovutagli ai sensi dell’articolo 669, paragrafo 1, del Codice del commercio ceco, che recepisce l’art. 17 paragrafo 2 lettera a), della direttiva 86/653. Il giudice di primo grado aveva respinto detta domanda motivando la non spettanza dell’indennità all’agente sulla base del fatto che quest’ultimo non avesse dimostrato che, dopo l’estinzione del contratto di agenzia, il preponente conservava sempre vantaggi sostanziali risultanti dalle operazioni con i clienti da lui acquisiti come disposto dal suddetto articolo. La decisione è stata confermata dal giudice d’appello e l’agente ha proposto ricorso per cassazione dinnanzi alla Corte suprema della Repubblica ceca, la quale ne ha infine investito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea per ottenere l’interpretazione dell’art. 17 paragrafo 2 lettera a) della direttiva 86/653 e sapere se l’espressione “provvigioni che l’agente commerciale perde”, ai sensi dell’articolo 17 debba essere interpretata nel senso che sono tali anche le provvigioni per la conclusione di contratti che l’agente di commercio avrebbe potuto procacciare se il contratto di agenzia commerciale fosse proseguito con i clienti da lui procurati al preponente o con i quali ha sensibilmente sviluppato gli affari. In caso di risposta affermativa, a quali condizioni tale conclusione si imponga anche per quanto riguarda le cosiddette provvigioni una tantum per la conclusione di un contratto. La Corte di Giustizia, nell’esaminare la prima questione, ha preliminarmente proceduto all’inquadramento della normativa di riferimento. L’articolo 17 della direttiva 86/653 disciplina le condizioni per cui un agente commerciale ha diritto a un’indennità dopo l’estinzione del contratto di agenzia e contiene precisazioni sulle modalità di calcolo di tale indennità. Il paragrafo 2, lettera a) di detto articolo precisa che il pagamento dell’indennità dovuta all’egente deve essere equo, per cui deve essere calcolato tenendo conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente commerciale perde e che risultino dagli affari con tali clienti. Riprendendo quanto osservato dall’avvocato generale nelle sue conclusioni, la Corte spiega che il diritto dell’agente ad avere un’indennità sorge se sono soddisfatte due condizioni cumulative: deve aver procurato nuovi clienti al preponente, o sviluppato sensibilmente gli affari con i clienti esistenti e il preponente deve beneficiare di sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con i clienti. Tali vantaggi sono quelli che il preponente continua a trarre dopo l’estinzione del contratto di agenzia, derivanti dai rapporti sviluppati tra l’agente e i clienti durante l’esecuzione del contratto. A detti vantaggi corrispondono le provvigioni che l’agente commerciale perde e che risultano dai rapporti sviluppati con i clienti, che devono essere prese in considerazione perché il calcolo dell’indennità alla quale l’agente commerciale ha diritto dopo l’estinzione del contratto sia equo e quindi tenga conto di tutte le circostanze relative al contratto d’agenzia. Pertanto, le “provvigioni che l’agente commerciale perde”, ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 2, lettera a), secondo trattino, della direttiva 86/653, sono quelle che l’agente commerciale avrebbe dovuto ricevere se il contratto di agenzia si fosse protratto e corrispondenti ai vantaggi che il preponente continua a trarre dopo l’estinzione del contratto d’agenzia e risultanti da rapporti commerciali stabiliti o sviluppati da tale agente commerciale nel corso dell’esecuzione del contratto. Le suddette provvigioni devono essere prese in considerazione nella determinazione dell’indennità prevista dall’art. 17 paragrafo 2. A sostegno di tale interpretazione, la Corte ha richiamato le sue precedenti pronunce in cui ha chiarito che l’art. 17 deve essere interpretato in un senso che contribuisca alla tutela dell’agente commerciale e che tenga pienamente conto dei meriti che l’agente acquisisce nell’espletamento delle operazioni affidategli (sentenza del 7 aprile 2016 C-135/14) e che ogni interpretazione dell’articolo 17 che si risolva a deterioramento dell’agente deve essere esclusa (sentenza del 19 aprile 2018, C-645/16). Analizzando la seconda questione, la Corte spiega che “le provvigioni che l’agente commerciale perde” ai sensi dell’ articolo 17, paragrafo 2, lettera a) costituiscono solo uno dei vari elementi da valutare per il calcolo equo dell’indennità. La scelta di un certo tipo di provvigione, come, ad esempio, delle provvigioni una tantum, non può quindi rimettere in discussione il diritto all’indennità previsto da detta disposizione. Se così non fosse, sussisterebbe un rischio di elusione del carattere indisponibile di tale diritto all’indennità stabilito all’articolo 19 di detta direttiva. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, la Corte ha pronunciato i seguenti principii di diritto: “L’articolo 17, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 86/653/CEE del Consiglio, del 18 dicembre 1986, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, deve essere interpretato nel senso che: le provvigioni che l’agente commerciale avrebbe percepito in caso di prosecuzione ipotetica del contratto di agenzia, per le operazioni che sarebbero state concluse, dopo l’estinzione di tale contratto di agenzia, con i nuovi clienti che egli ha procurato al preponente prima di tale estinzione, o con i clienti con i quali egli ha sensibilmente sviluppato gli affari prima di detta estinzione, devono essere prese in considerazione nella determinazione dell’indennità prevista all’articolo 17, paragrafo 2, di detta direttiva.” “L’articolo 17, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 86/653 deve essere interpretato nel senso che: il versamento di provvigioni una tantum non esclude dal calcolo dell’indennità, prevista da tale articolo 17, paragrafo 2, le provvigioni che l’agente commerciale perde e che risultano dalle operazioni realizzate dal preponente, dopo l’estinzione del contratto di agenzia commerciale, con i nuovi clienti che l’agente commerciale gli ha procurato prima di tale estinzione, o con i clienti con i quali quest’ultimo ha sensibilmente sviluppato gli affari prima di detta estinzione, quando tali provvigioni corrispondono a remunerazioni forfettarie per ogni nuovo contratto concluso con tali nuovi clienti, o con i clienti esistenti del preponente, con l’intermediazione dell’agente commerciale.” Margherita Tenneriello Sentenza della Corte Europea 23 mar 23 C57421 Scarica testo integrale in PDF
FALLIMENTO DEL PREPONENTE E APPLICAZIONE DELL’ ART. 72 L. FALL. AL RAPPORTO DI AGENZIA PENDENTE
Con la Sentenza n. 10046/2023 pubblicata in data14/04/2023 la Suprema Corte si è pronunciata in ordine alla vecchia legge fallimentare, oggi sostituita con il decreto legislativo 12/01/2019, n. 14, chiarendo che in caso di fallimento della preponente il rapporto di agenzia è regolato dall’art. 72 del regio decreto n. 267 del 1942, con la conseguente sospensione del rapporto a decorrere dalla dichiarazione di fallimento. La sentenza della Corte di Cassazione trae origine dall’opposizione di un agente di commercio avverso l’esclusione dallo stato passivo del fallimento della sua preponente, del suo credito per le indennità suppletiva di clientela e di mancato preavviso. Il Giudice di primo grado aveva rigettato l’opposizione motivando la non spettanza delle suddette indennità all’agente per la ritenuta inapplicabilità della regola generale di sospensione del rapporto prevista dall’art. 72 L. Fall., attesa la natura fiduciaria del rapporto di preposizione, ed il conseguente scioglimento automatico del contratto di agenzia in sostanziale analogia a quanto disporrebbe l’art. 78 L. Fall. in tema di mandato. L’agente ha impugnato e ne è scaturito il ricorso per cassazione all’origine della sentenza qui commentata. La Suprema Corte, nell’esaminare la questione, ha preliminarmente ribadito l’assenza di una disciplina specifica del contratto di agenzia nell’ambito dei rapporti pendenti di cui all’art. 72 L. Fall., che aveva portato la dottrina e la giurisprudenza, in epoca anteriore alla riforma della legge fallimentare per effetto dei decreti legislativi 9 gennaio 2006, n. 5 e 12 settembre 2007, n. 169, ad adottare posizioni differenti. Un primo orientamento riteneva applicabile al rapporto d’agenzia la regola generale dell’art. 72 L. Fall. che, anche se faceva espresso riferimento al contratto di vendita, era considerato espressione di un principio generale applicabile a tutti i contratti con prestazioni corrispettive (Cass. civ. 10 marzo 1988, n. 2385). Un diverso orientamento, per l’assimilazione del contratto di agenzia a quello di mandato, riteneva applicabile l’art. 78 L. Fall., ai sensi del quale il contratto di mandato si scioglieva per il fallimento di una qualsiasi delle parti (Cass. civ. 10 ottobre 1961 n. 2069). Sul punto, però, la Corte ha osservato che non è possibile, sulla base di un’interpretazione giuridicamente fondata, assimilare tipologicamente il rapporto di agenzia e quello di mandato. Nel sostenere tanto, la Corte ha, in primo luogo, richiamato una sua precedente pronuncia in materia (Cass. civ. 12 febbraio 2016, n. 2828) ed ha spiegato che ai fini della qualificazione del rapporto come mandato o agenzia, un ruolo determinate è assunto dal criterio della stabilità e dalla natura dell’incarico. Nel contratto di agenzia, infatti, i caratteri distintivi sono la continuità e la stabilità dell’obbligo per l’agente di promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente in una determinata sfera territoriale, realizzando con quest’ultimo una non episodica collaborazione professionale, mentre nel rapporto di mandato la promozione di determinati affari ha natura solo episodica ed occasionale, con le caratteristiche tipiche del procacciamento di affari ed in assenza di qualsivoglia vincolo di stabilità. Per tale ragione, la Corte ha ritenuto corretta l’applicazione al caso di specie della regola generale dell’art. 72, primo comma, L. Fall., a norma del quale l'esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto. Venendo all’esame della questione circa l’ammissibilità dell’agente allo stato passivo del fallimento per i crediti a titolo di indennità suppletiva di clientela e di mancato preavviso, la Corte ha, in primo luogo, chiarito che la fase di sospensione del contratto, prevista dall’art. 72 l. fall., deve essere risolta da una decisione definitiva del curatore di scioglimento o il subingresso nel contratto. In secondo luogo, la Corte richiamando precedenti di legittimità, ha spiegato che l’esercizio da parte del curatore della facoltà di scelta tra lo scioglimento o il subingresso nel contratto può anche essere tacito, ovvero espresso per fatti concludenti, non essendo necessario un negozio formale, né un atto di straordinaria amministrazione (Cass. civ. 2 dicembre 2011 e n. 25876; Cass. civ. 25 luglio 2019, n. 20215). Se lo scioglimento avviene, come nel caso in esame, a cura del creditore per fatto concludente, l’agente ha diritto ad essere ammesso allo stato passivo per i crediti a titolo di indennità sostitutiva di preavviso e suppletiva di clientela, i quali non hanno natura retributiva ma si configurano come un compenso indennitario volto a ristorare l'agente del pregiudizio. Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione ha pronunciato i seguente principii di diritto: “In caso di fallimento del preponente, al rapporto di agenzia pendente, si applica la regola generale di sospensione stabilita dall’art. 72, primo comma l. fall., in quanto non assimilabile tipologicamente a quello di mandato; e quand’anche ciò fosse ritenuto, comunque applicabile per l’assenza di “diverse disposizioni della presente Sezione”, per la previsione del testo dell’art. 78 l. fall., applicabile ratione temporis, di scioglimento del contratto di mandato per il fallimento del mandatario (idest: dell’agente) e non anche del mandante (idest: del preponente)”. “Qualora il rapporto di agenzia pendente sia sciolto per fatto concludente, con il provvedimento di esclusione dei crediti ad esso relativi dallo stato passivo del fallimento del preponente, l’agente ha diritto di esserne ammesso per i crediti maturati a titolo di indennità sostitutiva del preavviso e suppletiva di clientela”. Margherita Tenneriello Cassazione civile n.10046-2023 scarica testo integrale
Nullità delle clausole inserite nel contratto di agenzia che attribuiscono al preponente il potere di modifica unilaterale della base di calcolo delle provvigioni
Con l’ordinanza n. 9365/2023 resa in data 05/04/2023 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha confermato il principio di diritto espresso con le precedenti pronunce (Cass. n. 11003 del 1997 e Cass. n. 4504 del 1997) in tema di nullità delle clausole dei contratti di agenzia che attribuiscono al preponente il potere di modificare unilateralmente la base di calcolo delle provvigioni. L’ordinanza della Corte di Cassazione trae origine dalla domanda proposta da un agente per ottenere la condanna del preponente al pagamento delle differenze provigionali stornate in base a due clausole inserite nel contratto di agenzia che attribuivano allo stesso preponente la potestà di dedurre dalla base di calcolo delle provvigioni gli extra sconti concessi al cliente. Il Tribunale aveva accolto parzialmente le domande dell’agente ma, a seguito dell’impugnazione della pronuncia di primo grado da parte del preponente, la Corte d’Appello di Genova, in parziale riforma della sentenza di primo grado, pur riconoscendo l’effettiva genericità e indeterminatezza delle clausole in questione, le ha ritenute legittime accertando il diritto del preponente di modificare di conseguenza l’ammontare degli affari su cui calcolare le provvigioni. Avverso la pronuncia della Corte d’Appello l’agente ha proposto ricorso in Cassazione deducendo l’illogicità, la contraddittorietà e l’insufficienza della motivazione con cui la Corte di Appello ha escluso la nullità denunziata. In particolare, ha sostenuto che con l’applicazione di tali clausole era rimessa esclusivamente alla volontà del preponente sia la scelta dei clienti a cui destinare gli extra sconti, sia l’entità economica degli stessi, così da concedere al preponente il potere di modificare unilateralmente la base di calcolo delle provvigioni senza alcun limite. La Suprema Corte di Cassazione, seguendo l’orientamento delineato nelle sentenze summenzionate, ha chiarito che il codice civile riconosce la possibilità di modificazioni unilaterali del contratto, ma è necessario che tali modifiche siano già predeterminate, attraverso caratteristiche intrinseche o limiti esterni, così da rendere possibile la formazione del consenso al momento della sottoscrizione del contratto su più oggetti determinati previsti come alternativi. La possibilità di modificare talune clausole del contratto non si deve tradurre in un sostanziale aggiramento della forza cogente del contratto ed è perciò necessario prevedere dei limiti a tale potere e, in ogni caso, che sia esercitato in osservanza dei principi di correttezza e buona fede. Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’agente, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello di Genova, affinché si attenga al seguente principio di diritto: nel contratto di agenzia, devono considerarsi nulle, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., le clausole formulate in modo tale da attribuire al preponente un potere illimitato di modifica unilaterale della base di calcolo e quindi dell'importo delle provvigioni, attraverso la facoltà di concedere extra sconti in misura non prestabilita e a un numero di clienti imprecisato, così rendendo non determinato e non determinabile un elemento essenziale del contratto, quale appunto la controprestazione dovuta dalla società all'agente. Margherita Tenneriello. scarica testo integrale ordinanza n. 9365.2023
Decreto Dirigenziale del 21 marzo 2023, in tema di Composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa
Il Ministero della Giustizia ha pubblicato il Decreto Dirigenziale del 21 marzo 2023 che ha integrato il Decreto 28 settembre 2021, in tema di Composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, al fine di adeguarlo alle novità apportate al Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza dal Decreto legislativo 17 giugno 2022 n. 83. Il provvedimento è diviso in sei sezioni, la prima relativa al test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento. Questo test consente all’imprenditore di valutare in che misura sia ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa e, nel contempo, aiuta l’esperto a comprendere se vi sono concrete prospettive di risanamento. La seconda sezione introduce la Check-list (lista di controllo) particolareggiata per la redazione del piano di risanamento e per la analisi della sua coerenza. L’imprenditore, per accedere alla composizione negoziata, deve redigere un progetto di piano di risanamento seguendo le indicazioni della presente check list. La terza sezione regola il protocollo di conduzione della composizione negoziata, che contiene le istruzioni operative per la gestione della procedura di composizione negoziata. La quarta sezione contiene le linee guida per la formazione degli esperti coinvolti nella composizione negoziata della crisi d’impresa, in essa sono indicati i temi che dovranno essere oggetto della formazione specifica degli esperti, a qualunque categoria gli stessi appartengano. La quinta sezione regola la piattaforma per la composizione negoziata, che è rappresentata da un portale internet che rende disponibili due aree principali, una pubblica e una riservata ad utenti autorizzati. L’ultima sezione ha ad oggetto la scheda sintetica sul profilo professionale dell’esperto, che ha la funzione di agevolare le commissioni regionali nella selezione degli esperti indipendenti più adatti alle esigenze specifiche dell’impresa in crisi. Margherita Tenneriello Decreto-21-marzo-2023 Scarica testo integrale
Decreto legislativo 10 marzo 2023, n. 30, Crowdfunding esteso alle S.r.l.
Il 24 marzo 2023 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto legislativo 10 marzo 2023, n. 30 emesso in attuazione del regolamento (UE) 2020/1503, relativo ai fornitori europei di servizi di crowdfunding per le imprese, che modifica il Regolamento (UE) 2017/1129 e la Direttiva (UE) 2019/1937. Il provvedimento, che entrerà in vigore l’8 aprile 2023, apporta alcune modifiche al Testo Unico in materia di intermediazione Finanziaria di cui al Decreto legislativo n. 58 del 1998 (TUF). La lettera a) del comma 1 dell’art. 1, attraverso un rinvio all'articolo 2, paragrafo 1, lettera a), del Regolamento (UE) 2020/1503, introduce nell’art. 1 comma 5 novies, D.lgs. 58/1998 la nozione di “servizio di crowdfunding”, definito come l’abbinamento tra gli interessi a finanziare attività economiche di investitori e titolari di progetti tramite l’utilizzo di una piattaforma di crowdfunding”, attraverso una delle seguenti attività: i) intermediazione nella concessione di prestiti; ii) collocamento senza impegno irrevocabile, di valori mobiliari e strumenti ammessi a fini di crowdfunding, emessi da titolari di progetti o società veicolo, e ricezione e trasmissione degli ordini di clienti, relativamente a tali valori mobiliari e strumenti ammessi a fini di crowdfunding. La lettera b) del comma 1 dell’art. 1 introduce nel TUF il nuovo articolo 4 sexies.1 che, in tema di vigilanza, individua la Banca d’Italia e la Consob come le autorità nazionali competenti, la prima ad assicurare l’osservanza degli obblighi imposti di trasparenza e correttezza dal Regolamento e la seconda ad assicurare l'osservanza degli obblighi imposti dal Regolamento in materia di adeguatezza patrimoniale, contenimento del rischio e gestione degli intermediari. Inoltre, è previsto che per l'esercizio delle competenze e dei poteri loro attribuiti la Banca d’Italia e la Consob operino in modo coordinato anche al fine di ridurre al minimo gli oneri gravanti sui fornitori di servizi di crowdfunding. La lettera d) del comma 12 dell’articolo 1 riscrive l'articolo 100 ter del TUF ampliando la portata del crowdfunding, estendendolo anche alle S.r.l. Il primo comma del nuovo articolo 100 ter stabilisce che, in deroga a quanto previsto dall'articolo 2468, primo comma, del Codice civile, le quote di partecipazione in una società a responsabilità limitata possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso le piattaforme di crowdfunding, nei limiti previsti dal Regolamento (UE) 2020/1503. Il secondo comma stabilisce poi che, in alternativa a quanto stabilito dall'articolo 2470, secondo comma, del Codice civile e dall'articolo 36, comma 1 bis, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, per la sottoscrizione e per la successiva alienazione di quote rappresentative del capitale di società a responsabilità limitata la sottoscrizione possa essere effettuata per il tramite di intermediari abilitati alla prestazione di uno o più dei servizi di investimento previsti dall'articolo 1, comma 5, lettere a), b), c), c-bis), ed e) nei termini previsti nelle lettere successive. Margherita Tenneriello DECRETO LEGISLATIVO 10 marzo 2023, n. 30 Scarica testo integrale